Il martirio di Mandalay nell’apocalisse birmana
martedì 1 aprile 2025
Rialzarsi dalle macerie. Ancora una volta. Non c’è immagine più calzante per raccontare il Myanmar, oggi alle prese con la nuova terribile prova del terremoto. Archiviate le prime immagini a effetto dell’acqua delle piscine che precipita dall’alto dei grattacieli di Bangkok, è la devastazione di Mandalay – la seconda città del Myanmar – l’istantanea più veritiera della grande tragedia che ha colpito in questi giorni l’Asia. Ferita su ferita in un Paese come l’ex-Birmania, da più di quattro anni – ormai – prostrata dalla guerra civile innescata dal colpo di Stato dei generali che il 1° febbraio 2021 hanno spazzato via la faticosa strada verso la democrazia incarnata da Aung San Suu Kyi. Il terremoto è una nuova prova anche per l’arcidiocesi di Mandalay, guidata da monsignor Marco Tin Wim, il coraggioso arcivescovo che nel 2021 era sceso in piazza per sostenere chi protestava in favore della democrazia. Aveva aperto le porte a chi fuggiva dalla repressione. Poi, però, nell’aprile 2022 i militari birmani gliel’avevano fatta pagare con un’irruzione nella cattedrale del Sacro Cuore, dal chiaro sapore intimidatorio. Da allora la Chiesa di Mandalay è andata avanti a camminare su un filo sottilissimo, con la città che restava uno dei pochi baluardi ancora nelle mani dei militari, mentre nella vicina regione di Sagaing divampava la guerra, con l’avanzata dell’alleanza tra milizie etniche che cerca di rovesciarli. Un conflitto fatto di bombardamenti aerei feroci dell’aviazione birmana – sostenuta da Russia e Cina –, che più volte nei villaggi hanno colpito anche le chiese, oltre alle pagode dei monaci buddhisti. Il risultato è una situazione del tutto fuori controllo. Poco più di un mese fa, proprio nell’arcidiocesi di Mandalay, la Chiesa del Myanmar si è trovata a piangere il suo primo sacerdote martire dall’inizio della guerra. Padre Donald Martin Ye Naing Win, 44 anni, il 14 febbraio è stato ucciso da un gruppo di miliziani ribelli nel villaggio di Kangyitaw. L’hanno colpito mentre stava intervenendo in difesa di due insegnanti donne della locale scuola parrocchiale informale, uno dei volti oggi più comuni del servizio della Chiesa birmana in un Paese dove quattro anni di guerra hanno cancellato tutto. Chi era presente ha raccontato che i miliziani erano ubriachi o sotto l’effetto di droghe, altra piaga per cui il Myanmar è tristemente famoso. E che di fronte alla loro richiesta di mettersi in ginocchio il prete birmano aveva risposto: «Mi inginocchio solo davanti a Dio». È la Mandalay funestata da queste storie ma anche da straordinarie testimonianze di fede, l’epicentro del terremoto le cui immagini abbiamo visto passare in queste ore nei nostri notiziari tv. Con tutto il peso della guerra e delle sue contraddizioni. Compresa quella delle squadre di soccorso immediatamente inviate da Taiwan ma rispedite al mittente dai generali birmani che non le hanno fatte entrare nel Paese per non inimicarsi Pechino, il potente vicino da cui dipende la loro sopravvivenza politica. Ha bisogno di rialzarsi, il Myanmar. Ma non potrà farlo senza quel cessate il fuoco che a nome della Conferenza episcopale del Paese il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, ha invocato in queste ore facendo appello all’assistenza umanitaria. Perché dovrebbe essere evidente a tutti: non può salvare vite umane e offrire soccorso chi nelle stesse ore utilizza i propri aerei militari per continuare a bombardare, anche in zone non poi così lontane dal cuore del sisma. «Il popolo del Myanmar è paziente, pazientissimo – ci raccontava la sera stessa del terremoto un sacerdote dal Myanmar –. Sa accogliere e incassare. Ma nel silenzio dei volti di oggi ho sentito forte una preghiera comune: “Fino a quando, o Signore?”». © riproduzione riservata
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